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29/07/2021   FERNANDO FIDANZA
  ''Il viaggio mi ha insegnato a non dare nulla per scontato, e che nulla mi è dovuto...''

Fernando Fidanza, nato a Roma nel 1976, laureato in Lingue e civiltà orientali, ha vissuto 14 anni in Cina dove ha scritto colonne sonore per film e documentari, ha pubblicato il disco ''风之形'' con la sua band cinese e ha suonato in più di 100 città. Ha pubblicato insieme al fratello Luca Fidanza la raccolta di poesie e fotografie "Cina: le radici profonde" e a giorni pubblicherà la seconda. Ma oggi, ci addentriamo con maggiori dettagli sul suo debut-album “Old folk for new poets”.

Benvenuto. Sei un artista che ha stanziato per 14 anni in Cina. Quanto prezioso raccolto hai accumulato da questa esperienza? ''Grazie a te per l’invito. Diciamo che questa esperienza ha profondamente cambiato il modo in cui guardo le cose. Innanzitutto lì ho ritrovato la fiducia in me stesso, grazie all’infinita gamma di possibilità che un paese come la Cina ti offre. Sono stato chef, allenatore di calcio, insegnante di lingua, attore, compositore di colonne sonore, fotografo, e sopratutto ho avuto la possibilità di suonare dal vivo in 128 città, realizzando quindi uno dei miei sogni, viaggiare grazie solamente alla mia musica. E questo viaggiare mi ha insegnato la cosa più importante: qualsiasi cosa va vista con i propri occhi, non ci si deve mai accontentare del sentito dire, che quasi mai corrisponde alla realtà, o perlomeno al concetto di realtà che differenzia ognuno di noi. Mi sono ritrovato, cosa più facile da straniero in terra straniera, a frequentare persone da tutte le parti del mondo, e questo penso, o perlomeno spero, abbia aperto molto la mia mente e i miei orizzonti. Ho ritrovato similitudini con la nostra cultura in popolazioni che consideravo lontane, e grandi differenze in culture che consideravo vicine. Storie diverse, climi diversi, tradizioni diverse portano a punti di vista diversi, ciò che è strano per noi è normale da un’altra parte e viceversa. Insomma, quest’esperienza, e il viaggio in genere, mi hanno insegnato a non dare nulla per scontato, e che nulla mi è dovuto. Se poi vogliamo entrare nel particolare della Cina e dei cinesi, ti posso dire che il popolo cinese è uno dei più accoglienti e allegri che abbia mai conosciuto, e che mi hanno insegnato generosità e importanza del sacrificio. Dal punto di vista artistico, invece, mi hanno insegnato a collaborare con artisti di discipine differenti. Ultima cosa, ho visto persone da tutto il mondo, cinesi compresi, ricominciare tutto daccapo a 65, 70, 80 anni, e visto che grazie a New Model Label pubblico il mio primo disco a 45 anni “suonati” (pun intended), mi sento di dire a tutti che non è mai troppo tardi!''.

La città di XinXiang ti ha dato la forza di rialzarti dopo un periodo critico. Ti va di raccontarlo? Cosa ha di speciale questa città? ''Beh, intanto grazie per esserti informato su di me. In cosa ci rifugiamo nei momenti di crisi? Io, sin da piccolo, oltre a trovare conforto nel supporto incondizionato di famiglia e amici, mi sono sempre rifugiato nella musica. Nel 2010, quando vivevo a Pechino già da cinque anni, ho passato uno dei periodi più difficili della mia vita. Mia madre era morta da pochi mesi, la mia ragazza mi aveva lasciato dopo sei anni passati insieme, il mio investimento in uno studio di registrazione era fallito. Mi ritrovai senza soldi, tormentato da attacchi di panico, e soprattutto con la netta sensazione di aver deluso profondamente tutte le persone che amo. In quel momento, ancora una volta, la musica si precipitò in mio aiuto. Nella mia mente confusa avevo solo un paio di opzioni per tentare di ricominciare, tornare in Italia o andarmene a suonare in giro per la Cina. Scelsi la seconda opzione. Avevo bisogno di viaggio, di avventura e di sacrificio fisico che mi ero imposto per espiare i miei sbagli. Alla fine, la scelta ricadde sulla città di Xinxiang, nella provincia dello Henan. Per gli standard cinesi, con i suoi 5 milioni di abitanti, Xinxiang è una città relativamente piccola e senza dubbio non una tra le più famose e frequentate da stranieri''.

Perché Xinxiang? ''Per prima cosa a Xinxiang c’è un locale, il SubArk, in cui avevo già suonato nel 2008 (avventura sì, ma non del tutto alla cieca!). Inoltre a circa un’ora e mezza da Xinxiang, sul monte Yuntai, si trova una località chiamata il Boschetto di Bambù dove nel III secolo dopo Cristo sette artisti, conosciuti come “I sette saggi della foresta di bambù”, si ritirarono per sottrarsi alla corrotta vita di corte e alle regole della società confuciana, e dedicarsi a una vita di ispirazione taoista basata su libertà, arte, connessione con la natura, anticonformismo e vino. In questo viaggio che nasceva dalla voglia di fare ciò che amo, costi quel che costi, una simile destinazione simboleggiava una sorta di Mecca. Contattare il padrone del SubArk, il caro Xu Xiaodong, e organizzare una serata fu facile. Chitarra in spalla, zaino, autobiografia di Keith Richards in mano e Metallica nelle cuffiette: ero pronto. E dopo quei giorni a Xinxiang, tutto ricominciò a essere bello''.

Nel lockdown hai concretizzato l’idea di musicare scritti di poeti contemporanei. Come nasce l’intento? ''Quest’idea nasce da tre paesi, la Slovenia, l’Italia e la Cina. Un giorno di tipica noia “lockdownesca” trovai per caso un sito di poesie di giovani poeti sloveni tradotte in inglese. Guardai la mia chitarra, lei ricambiò lo sguardo, e insieme mettemmo in musica una delle poesie. Ci piacque e decidemmo di proporre questa canzone all’autrice della poesia. L’entusiasmo della sua risposta mi fece subito esclamare: “Lucaaaaa, Lucaaaaa (Luca è mio fratello che stava nell’altra stanza), dammi una tua poesia!”. Luca mi diede la poesia che sarebbe diventata “Incontri”. ''Si, vabbeh, Fernà, ma stavolta che c’entra la Cina?''. C’entra, la Cina c’entra sempre. Per prima cosa, Li Bai, il più importante poeta classico cinese, soleva dire: “Non c’è poesia senza musica e non c’è musica senza poesia”. E poi un’anno e mezzo prima della pandemia Luca ed io avevamo pubblicato una raccolta di poesie e fotografie sulla Cina, intitolata “Cina: le radici profonde”. Grazie alle presentazioni del libro incontrammo altri poeti. Proposi quindi a questi poeti l’idea di musicare le loro poesie, e loro non solo accettarono, ma mi presentarono altri poeti, che mi presentarono altri poeti, che mi presentarono altri poeti “...che per due soldi mio padre comprò...”, ahahaha... no, che diventarono i “mitici” new poets del titolo''.

E’ indubbio che, per molti artisti, rifugiarsi in uno strumento sia di vitale importanza. Per te quanto lo è stato la tua chitarra? ''Mentre rispondo a questa domanda sto ascoltando “One” dei Metallica. L’assolo iniziale di Kirk Hammett è il primo assolo che ho imparato in vita mia. Nel 1988 già suonavo da un po’, ma fu l’incontro con “South of heaven” degli Slayer e “...And justice for all” dei Metallica a farmi capire che non è che semplicemente mi piaceva suonare, ma che non potevo essere felice senza suonare. Francesco Guccini, il mio cantante italiano preferito, diceva in ''Canzone di notte n.2'': “E un'altra volta è notte e suono/ Non so nemmeno io per che motivo/Forse perché son vivo/E voglio in questo modo dire "sono"”, ecco, prendetemi pure per pazzo, ma ho sempre pensato che questo verso fosse dedicato a me. Non sono mai stato solo, ma la chitarra da piccolo mi ha fatto avere più amici; non sono mai stato timido, ma la chitarra mi ha fatto conoscere la mia prima ragazza; non sono mai stato povero, ma la chitarra mi ha sempre salvato nei momenti di crisi (compresa una vacanza di tre settimane a Dublino pagata completamente suonando per strada). Ricordo che un giorno stavo tornando a piedi da scuola, chitarra al collo. Sul maciapiede, camminando, studiavo “Eyes of the beholder” dei Metallica, all’improvviso una macchina accosta, era mio padre che tornava dalla spesa: “A Fernà, almeno quando attraversi mi fai il piacere di staccare gli occhi dalla chitarra?”''.

Parliamo del tuo album di debutto “Old folk for new poets”. Significato del titolo ed, in generale, di tutta l’opera? ''Il concetto di “old folk” ha vari significati. Se consideriamo “folk” come sostantivo significante “popolo”, il riferimento è a un popolo un po’ stanco e un po’ troppo abituato a guardare solo all’arte del passato, un po’ “vecchio” insomma, soprattutto in Italia dove domina l’esaltazione di tutto ciò che è “classico” (che può significare Dante come la musica degli anni ’70). Trovo affermazioni come “Oggi non c’è nessun bravo artista” o “E’ tutto già visto e sentito” molto rassicuranti (fa stare bene il pensare che solo l’arte che ha accompagnato i nostri anni migliori sia la migliore, ci fa sentire protagonisti di un qualcosa di epocale e ci mette al riparo dalla delusione di sapere che non potremo vedere, leggere e ascoltare capolavori che verranno dopo la nostra morte), ma anche molto pericolose per lo sviluppo di una cultura, oltre che profondamente sbagliate. Penso che i miei (nostri) new poets si scontrino spesso con questo old folk. Il secondo riferimento di “old folk” sta nel mio amore per il folk come genere musicale. Non è il mio genere preferito, sono un metallaro incallito, ma ho sempre amato il modo di vivere dei cantanti folk, incentrato sul viaggio, sulla fatica e sull’incontro e il contatto con gli altri. Fatica, gavetta, contatto, viaggio dell’old folk unito alle nuove (imprescindibili) tecnologie dei new poets, solo il compromesso fra queste due filosofie troppo spesso messe l’una contro l’altra può migliorare le cose''.

Come hanno reagito i poeti che hai consultato, all’atto di proporgli l’incastro tra musica e poesia? Si possono nutrire speranze che altri seguano il tuo esempio per ridargli la vetrina che meritano? ''Sono stati semplicemente perfetti. Sono stati pazienti, entusiasti, propositivi, mi hanno sempre incoraggiato, e continuano a farlo. E proprio per questo mi (e li) collego alla tua seconda domanda. I poeti contemporanei italiani (in questo caso i poeti, ma si può allargare il discorso a tutte le arti) meritano vetrine ben più importanti della mia, che non sono nessuno. Ma, se devo essere sincero, il problema non penso sia solo di collaborazione tra artisti, ma sia un problema di una società che non rischia, non investe, non si interessa. Colgo infatti maleducatamente l’occasione dello spazio che mi hai regalato per citare ancora i “new poets”, incoraggiando i tuoi lettori ad andare a leggere le loro poesie, che meritano veramente. I “new poets” sono: Gianluca Ceccato, Alessandro Romanello, Flavia Cidonio, Jonathan Rizzo, Luca Fidanza, Valentina Demuro, Mattia Tarantino, Marina Marchesiello, Vincenzo Mirra, Virginia Pedani, Roberto Crinò, Emanuela Mannino, Letizia Di Cagno''.

Quanto ti manca, oggi, la Cina? Progetti di tornarci anche con dei live, visto che per te è una terra che simboleggia una sorta di Mecca? ''La Cina mi manca sempre. Sicuramente voglio tornarci se non altro per farla conoscere alle persone che amo. Inoltre la Cina cambia così velocemente che ogni volta che ci si torna è come fare un viaggio in un posto che non hai mai visitato. Sarei felicissimo di risuonare in Cina, e rivedere e ringraziare di nuovo tutte le persone che mi hanno letteralmente “salvato”. Ma se devo essere sincero, prima di tornare a suonare in Cina, ci sono tanti tanti paesi in cui non ho ancora suonato...''.

E’ imminente anche l’uscita della seconda raccolta di poesie “Manifesto programmatico”. Pensi che, in futuro, contemplerai l’idea di estrarne qualcuna per progettare un secondo disco a tema? ''Ti confido un segreto, ma che rimanga tra noi, ho già musicato 15 poesie di “Manifesto programmatico”. Facciamo così, promuovo per bene “Old folk for new poets”, faccio tanti concerti in tutta Italia, e poi, se va bene, busso di nuovo alla porta della New Model Label e propongo “Manifesto programmatico” e perché no... “Old folk for new poets Vol.2”''.

Augurando ottime prospettive, salutiamo Fernando Fidanza con l’auspicio che la sua iniziativa venga emulata da più artisti per il recupero dell’arte poetica... ''Grazie di cuore Max!''. (Max Casali)