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07/09/2021   DeaR
  ''Seminare per poi raccogliere è importante, specialmente per l'inverno che verrà...''

Davide Riccio (in arte: DeaR) è educatore, polistrumentista, scrittore e giornalista, intervistatore. Abbiamo l’onore di incontrarlo in occasione dell’uscita del nuovo, mastodontico doppio album “New Roaring Twenties/Human decision required”.

Ciao Davide. Hai interloquito con centinaia di band e solisti ed ora ti ritrovi tu ad essere intervistato. Che effetto ti fa? Con i tanti ruoli che abbracci nella vita artistica qual è quello in cui senti di esprimerti con più profondità e prolificità? ''Ciao Max. Innanzitutto ti ringrazio per la tua bellissima recensione al mio lavoro. Per quanto riguarda le interviste, provenendo dal giornalismo, ma anche dalla musica, ho sempre pensato che fosse importante dare una mano disinteressata ai tanti musicisti sotterranei o emergenti (benché mi siano capitati anche nomi famosi di musicisti già affermati, non solo italiani), quindi parlare con loro, divulgarne il lavoro in questo paese alquanto "distratto" (così distratto, perdona la battuta, da non essersi mai accorto di me per 40 anni, ma certo anche per cause mie). Ho solo provato a seminare e a far crescere qualcosa, senza smettere di imparare, di aggiornarmi, di confrontarmi con la mia epoca. E se non si semina, certo non ci sarà mai alcun raccolto. Seminare per poi raccogliere è importante, specialmente per l'inverno che verrà. Diciamo che da una persona ormai della mia età e della mia esperienza ci si aspetta sempre qualcosa di importante e di senso e, quindi, trovarsi ora dalla parte di chi è intervistato è un po' scomodo, avendo in fondo ancora conservata la voglia a volte di cazzeggiare un po', di dire anche qualche sacrosanta banalità, tutto e il contrario di tutto, prendere e prendersi anche un po' in giro; ma è finalmente piacevole, specialmente dopo una lunga carriera appartata e sconosciuta, a volte anche in paranoia, pensata come incappata da qualche parte in un qualche incomprensibile meccanismo fatalmente ostracizzante. Tra le tante cose che ho provato a fare come la musica, i libri, il giornalismo, il cinema o la radio o cos'altro, incluso il mio lavoro di educatore, in tutte queste ho messo il medesimo me stesso che potevo e sapevo o non potevo e non sapevo al momento. E, su tutto, un tormento faustiano inappagabile di conoscere e spingermi oltre la finitezza di una vita soltanto, del Sein zum Tod, l'essere-per-la-morte''.

Parliamo del nuovo album “New Roaring Twenties/Human decision required”. Un’opera imponente, intrisa di riferimenti culturali, esoterici, apocalittici, immaginifici. Da quant’è che contempli questo lavoro e quanto ci hai messo a svilupparlo? ''Invero, specialmente dopo avere avuto un'idea, un insight, non ci metto molto a fare un brano o a farne dieci. In genere il lavoro di composizione dura qualche ora. Mi siedo al piano e comincio, parole incluse. Poi registro subito, arrangio. Ho sempre avuto l'ansia di fare e chiudere un pezzo, mai più di due o tre giorni per le successive limature. Così fin da ragazzo. Ho bisogno di liberarmi al più presto di ogni pezzo per lasciare il posto a qualcos'altro. "New Roaring Twenties" nasceva così nell'estate del 2019, già volati vent'anni dal tanto atteso 2000 poi deludente per noi che fummo bambini negli anni di "Ufo Shado" e di "Spazio 1999". A proposito, è da "Spazio 1999" che proviene il titolo di "Human decision required", quando i computer della Base Alpha non poterono suggerire alcuna soluzione al posto di una decisione umana per insufficienza di dati. Il concept nasceva come saluto di addio agli anni '10 e di "benvenuto" agli anni '20, cercandovi un confronto con gli anni Venti del '900. Benché a seguire di una guerra mondiale, mi sono ritrovato a considerare da una parte il progresso tecnologico e scientifico dell'esaltante positivismo di allora, la fantascienza utopica, ma anche l'abbandono progressivo dell'utopia positivista verso un divertente individualismo rivoluzionario e stravagante, con tutte quelle esaltanti avanguardie, quel dinamismo artistico e culturale probabilmente irripetibile, mentre dall'altra ho ritrovato oggi solo distopie in una società panoptica, sterile e restauratrice, davvero sempre più di stampo orwelliano e in un'epoca di crescente controllo sociale, conformazione e isolamento non solo nel futuro ormai segnato dei nativi digitali. E ho dovuto fare i conti con un pesante senso di responsabilità verso la generazione dei Millennials e della futura Gen Alpha... Ma chi vivrà, vedrà. Poi è arrivato il 2020 a rendere tutto ciò ancora più drammatico e deprimente, più che ruggente a parte i ruggiti merdosi dei leoni da tastiera. A seguire c'è stato il lockdown del 2020. Lavoravo per cinque giorni in un servizio socio-sanitario, per altri cinque stavo costretto in casa (una misura per ridurre le conseguenze di eventuali contagi nell'équipe di lavoro). E nei giorni in cui stavo costretto in casa ho composto "Human Decision Required", che è diventato un prolungamento naturale e altrettanto cacotopico dei "nuovi anni venti ruggenti", quasi a trovarvi (al contrario rispetto al 1920) la nostra di guerra mondiale. Nelle successive fasi di chiusura, approfitto dello spazio che mi concedi, ho poi anche scritto il romanzo "La Banca dei Reincarnati" e il libro di poesia visuale e concreta "Poi Sia", pubblicati quest'anno con la Genesi editrice. Sono tante le cose che potrei dire per ciascun brano. Ognuno nasce da un evento preciso e da una mia necessità - da sempre "enciclopedica", non proprio per la gioia di chi ha provato a starmi vicino - di imparare, di sapere, di comprendere, ricomprendere, collegare e ricollegare. Oppure per semplice bisogno di una catarsi, una vera e propria abreazione. Le morti di David Bowie e di Florian Schneider per me sono state scioccanti. Il giorno della morte di Florian, tornato a casa dal lavoro, sconvolto, mi sono messo ai sintetizzatori e in un'ora è nato "Dear Florian". Due ore dopo lo avevo già mandato a Wolfgang Flür per farglielo ascoltare. È stato l'unico modo per liberarmi da quel dolore, per altro scrivendo una musica semplice e gioiosa, proprio al modo di certe melodie dei Kraftwerk. Per Bowie c'è voluto più tempo. Prima di scrivere "Duende (for David Bowie)" ci sono voluti quasi tre anni di vera e propria rimozione della sua morte. E il mio libro "Italian Bowie - Tutto su David Bowie visto in Italia e dall'Italia", portato anche in radio per 16 puntate. In questi anni ci stanno lasciando in molti. È terribile. In qualche modo, con questa parte importantissima della nostra storia che se ne va, sta già anche toccando a noi che cantavamo incazzati I hope I die before I get old. Tempus fugit!''.

34 brani totali (35 se includiamo la ghost-track “Gladys and George”), ricchi di dotte sfaccettature, nelle quali si notano riferimenti appassionati verso Bowie, Sylvian, Morrissey per la musica e Pavese e Shakespeare per la letteratura, per concepire una riflessione sugli odierni anni ’20. Come li vivi tu? Cosa condanni e cosa apprezzi di quest’epoca? ''Per essere franco li sto vivendo maluccio, innanzitutto per fatti e inquietudini personali, cominciando a pensare che avrei bisogno di smettere di lavorare per potermi dedicare solo a ciò che mi va davvero negli ultimi anni "buoni", ma dall'altra sono terrorizzato al pensiero del pensionamento, così come della senilità o della malattia, specialmente dopo questo inverno, in cui per un mese ho temuto il peggio dopo una seria reazione avversa al vaccino, anche se Pfizer. Avere in mente che sei davvero arrivato è terribile. E anche se ora la scampi, prima o poi lo sarà davvero. E adesso so come ci si può disperatamente sentire. Da giovane non ci pensi o non con la stessa insopportabile consapevolezza. Per vincere l'angoscia in quel periodo ho composto e registrato velocemente il nuovo lavoro "Out of Africa", che spero di pubblicare entro l'anno. Pensavo sarebbe stato il mio ultimo, anche se lascerò un archivio buono per altri 40 anni, a scoprirlo o a riscoprirlo. Qualche giorno fa mi sono riguardato "Una vita vera" di David Lynch. La cosa più brutta per un vecchio, vi diceva Alvin Straight, è quella di pensare sempre a quando si era giovani. Mi sta capitando questa cosa sempre più spesso, sicché il confronto tra il mio microcosmo residuo e il mondo non mi fa condannare né apprezzare più nulla in particolare, se non che il chiudervi gli occhi la notte forse per sempre o il riaprirli ogni giorno con rinnovata gratitudine al mattino. Per me la morte è la cosa più oscena e innaturale dell'universo. Ma di recente ho anche scritto che l'intelligenza è stata infine la creazione più crudele della natura. Quanto all'epoca attuale posso soltanto dire che non la amo, ma sto cercando comunque di volerle bene, di esserci e di farvi qualcosa di buono. Credo sia ora di prendere il mio tagliaerba e andarmene, piano e segreto, verso una qualche altra futura migliore fratellanza''.

Il tuo doppio album è stato definito “quasi come un compendio del sapere umano per generazioni future”. Ti ci ritrovi nella descrizione oppure l’anelito progettualmente ingloba (anche) altro? ''In quanto compendio del sapere umano per generazioni future o capsula del tempo o simili, preferirei non avere questa responsabilità. Mi piacerebbe piuttosto pensare di poter stimolare, soprattutto in qualche giovane, qualcosa di diverso rispetto al Nulla che avanza travolgendo ogni cosa a colpi di rap, trap, EDM, talent show e dalla merda in generale. Ma nessuna storia è infinita e io non sono Atreyu, né Bastian (anche se un po' caparbio Bastian Contrario a volte sì, specialmente verso le maggioranze). E anche un po' Torre d'Avorio, per continuare a citare "La storia infinita", e Fortezza Bastiani (con altrettanto deserto dei tartari), per altro non immune dal fare merda io stesso, perché tutto dipende dai punti di vista altrui''.

Nel disco si notano percorsi di particolare sperimentazione, specialmente sulle chitarre, con accordature aperte ed effettate. Invece, quanta tecnologia hai usato? ''Sperimentare vuol dire soprattutto provare qualcosa una prima volta. Ogni volta che provo qualcosa per la prima volta per me è rinnovare qualcosa di gioioso, di vitale e misterioso come fu nell'infanzia. La sperimentazione è qualcosa che va poi al di là della strumentazione soltanto. Per ogni brano cerco anche dei confini concettuali o dei sentieri esplorativi di senso o anche, perché no, di nonsenso. Per "One of Paris" ho usato il cut up di Brion Gysin e William Burroughs, ma anche le carte delle Strategie Oblique di Brian Eno e Peter Schmidt. Per alcune tracce di "Human" ho invece fatta una sorta di regressione quasi auto-ipnotica verso la mia identità sonora di quando avevo dieci anni nel 1975. Cioè ho voluto comporre delle musiche e usare dei suoni come se avessi avuto ancora dieci anni, quando iniziai ad amare la musica e ad appassionarmici, cercando di ignorare o scartare tutto quello che è venuto dopo (così sono nate "Was my life a Kohoutek?" e "Pluto and Charon"). Prima di scegliere l'antica nenia islandese di "Rosa of Vatnsendi" (Vísur Vatnsenda-Rósu, pezzo ora noto per la versione fatta da Björk), dedicata a mia madre morta pochi giorni prima dopo lunga agonia, mi ero proposto di fare una cosa ancora più triste, se possibile, de "La petite fille de la mer" di Vangelis (che per me è la musica più triste dell'universo mondo). Per la ghost-track ho pensato a una storia di fantasmi, come quelli della terribile leggenda di Gladys e George sull'isola Seguin. Ho cercato di immaginare, mischiandola al tema della "Follia" come in Liszt e in Rachmaninov, la melodia che la povera Gladys inventò e prese a suonare ossessivamente in quella solitudine a due, prima che il marito George, guardiano del faro, impazzisse e la massacrasse, sfasciando anche il pianoforte. Pianoforte che, nel mio brano, è stato distrutto davvero a colpi di accetta da un gruppo di amici neozelandesi. A volte gioco anche un po': quando mi sedetti al piano per comporre "Missing" scherzai parodiando o immedisimandomi nel Jacques Brel più disperato. Nel fare di recente un pezzo per il mio nuovo lavoro "Out of Africa", mi sono messo a imitare David Byrne (ovviamente poi evito di registrare con quelle imitazioni). A volte questo mi alleggerisce, mi fa anche ridere. Mi sono sempre divertito a imitare svariati cantanti. Anche questo è sperimentare: provare a volte a immedesimarsi in un altro autore per vedere come avrebbe fatto lui, come invece ho poi fatto io. La scelta della strumentazione non è mai per me casuale. Per esempio l'uso programmatico dei molti strumenti a fiato in "Human" è importante per l'uso assertivo dell'aria contro una malattia, quella del Covid-19, che stava togliendo l'aria. Scegliere determinati strumenti elettronici analogici oggi obsoleti in "Dear Florian" o in "Grey Goo" ecc. (ARP Odissey, Minimoog, Theremin, stylophone ecc.) significa ricreare i suoni dell'epoca pionieristica dell'elettronica dei Kraftwerk. E poi c'è l'uso dei suoni della vita, dell'universo, le sonificazioni più disparate. "The Covidians" si basa sulle note della sonificazione del Coronavirus Sars-CoV-2 e sue varianti che sviluppano un tema sontuoso e sdrammatizzante di ottoni in stile Philadelphia Sound, alla Chicago e altre "band rock'n'roll coi fiati" su un tappeto di glitch music magari fighetta come quella di Trentemøller; e poi le sonificazioni di Plutone, di Giove, della radiazione cosmica di fondo, delle cellule vive e morte del lievito. E ancora il fonoautogramma di Scott de Martinville, la scala di Shepard infinitamente discendente (come infine nel gorgo eterno della morte nella canzone per Bowie), il diapason dell'orologio sonico Bulova Accutron (non l'ho mai disvelato prima, ma è il suono col quale si chiude "Pluto and Charon"), i suoni della Stazione Spaziale, i battiti del suono del sole e avanti... Mi diverto a disseminare di suoni o illusioni sonore del mondo e dell'universo, a nasconderli tra le pieghe delle mie tracce. Ma sempre con un significato. Anche le note messe nel sequencer di "Garden of earthly delights", quelle dipinte da Bosch sulle natiche di una delle tante figurine umane più o meno deformi nel suo noto trittico, hanno qui un senso, quello di deridere infine la nostra povera commedia umana che, comunque vada, può finire, dal Big Bang al Big Freeze, sempre e soltanto nell'unico modo possibile. Insomma, un mostrare il culo alla morte e all'universo intero, specialmente attraverso l'arte. Tecnologia elettronica ce n'è dunque tanta. Ma aver suonato antichi strumenti cinesi o tibetani è stato altrettanto tecnologicamente significativo. Tutto è tecnologico, se è vero che la tecnologia affonda le sue radici nei processi di trasformazione operati dagli uomini per adattare l'ambiente alle proprie esigenze. Anche il flauto di Divje Babe, ricavato da un femore di orso delle caverne 43.000 anni fa, fu (e rimane) uno strumento tecnologico. Secondo me è importante capire questo punto, o continueremo a pensare in modo errato a ciò che è naturale e al suo viceversa, continuando a generare un demenziale ecologismo radicale''.

Nelle orchestrazioni di “Ginnungagap” e “Lebensunwertes Leben” ci sembra di scorgere certe caratteristiche postminimaliste alla Philip Glass. Cosa ammiri di lui in particolare? ''Philip Glass è la perfetta sintesi della musica più alta capace di emozionare ed elevare con sé chiunque, anche le persone meno educate musicalmente. Un bel traguardo rispetto invece alla élite del primo minimalismo a volte assai ostico, come quello di Terry Riley, La Monte Young o dello sciamanico Charlemagne Palestine. Ma, tra i minimalisti, anche Steve Reich, Gavin Bryars e Moondog sono stati per me importanti. Ma più ancora lo furono Stravinskj, Bartók, Šostakóvič, Hindemith, Debussy, Ravel, Satie... Mi dispiace di non aver studiato così tanto la musica come avrei voluto per potermi avvicinare a tutta la loro grande musica. Il rock, soprattutto dopo la caduta sulla Terra di David Bowie, è stato un buon compromesso''.

Da Charlie Hebdo al Bataclan alle Torri Gemelle e molto altro. Nel tuo lavoro non mancano certo riferimenti ad immani tragedie e invettive contro il Movimento per l’estinzione umana volontaria ed il deep-web. Cosa tieni a sottolineare? L’invito ad un ritorno coscienzioso, fatto di umiltà e altruismo? ''Sì, certo. A cominciare da me, dal ricordarmene ogni giorno''.

Riuscirai a portare l’opera sul palco? Se sì, hai già un’idea di come allestirlo? (scongiurando un altro lockdown). Augurando ottime prospettive, salutiamo Davide Riccio (DeaR) con l’auspicio che la sua musica possa essere da stimolo per riportare la vita sui binari della sincera umanità. ''Oh no, io ho smesso di fare concerti. Ne ho fatti negli anni '80 e poi ancora sul finire dei '90. Mi piaceva, mi dava forti emozioni suonare o cantare per un pubblico. A vent'anni ero un vero animale da palco, come si suol dire. Nonostante io ami la solitudine e viva ormai come una sorta di eremita, ho sempre avuto anche uno spiccato spirito mondano, tuttavia sacrificato per varie vicissitudini. Non ho un gruppo, né è facile averne uno a 55 anni, condividerne le idee, a meno che non voglia fare una cover band di attempati coetanei che si divertano il sabato pomeriggio a fare inutili e magari pietose cover, rischiando qualcosa di patetico. Il mio polistrumentismo è servito ad aggirare il problema del trovare questo o quel musicista, aspettarne tempi e modi. Nasce quindi anche un po' per necessità o disperazione. E poi non amo ripetermi con le stesse canzoni da un palco all'altro, da una sera all'altra. A me piace lavorare sulla composizione, sulla registrazione nel mio studio e via, verso un altro pezzo, un'altra esperienza. Io devo alzarmi tutte le mattine per andare a lavorare e non è più tempo per me di fare concerti per quattro amici al pub o le prove in un garage, tanto più di questi tempi. Per un pubblico più ampio in giro per la nazione o fuori dalla nazione, ho perso già più di un treno, o un aereo. Aspetto ora l'astronave. La aspetterò però più volentieri, se nel frattempo ritornerà anche un po' di più sincera umanità. Non so se sarò d'aiuto in questo senso, ma ci sto ancora provando''.