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13/01/2022   VINTAGE VIOLENCE
  ''L’arte serve a comunicare il disagio della condizione umana all’umanità stessa...''

Ciao carissimi, innanzitutto grazie per il piacere psicofisico che ho provato ascoltando “Mono”, non capita spesso alla mia età. Voglio dire: fino alle 6 del pomeriggio di domenica 19 dicembre il disco-dell’-anno era un altro, poi ho premuto play su “Mono” e mezzora dopo era tutto molto chiaro. Questo perchè è un disco rock. Ossia: merce rara.

Ecco: come sono cambiati (evoluti? Non saprei...) i gusti musicali dall’inizio del millennio? Voi da che ascolti venite e cosa ascoltate oggi? ''Ciao a te! Allora… nei nostri ascolti c’è stata sicuramente un’evoluzione - quantomeno percepita - sia “in verticale” (ci siamo per così dire “aperti all’oggi”) sia “in orizzontale”, spaziando tra generi anche di matrice non necessariamente rock. Dopo anni di amori adolescenziali iper-idealizzati (Iggy Pop, David Bowie, Lou Reed, The Doors, Sex Pistols, Clash, Joy Division, Nick Cave, Nirvana…) ad inizio millennio la doppietta “Is this it” degli Strokes e “Turn on the bright lights” degli Interpol ci ha svegliato da una sorta di torpore vintage permettendoci di immaginare un futuro con il rock dentro. Questo ci ha anche permesso di riapprezzare il meglio del cantautorato - soprattutto nostrano - e di avvicinarci a generi diversi senza razzismi, purché portatori di grande qualità. È questo il punto: abbiamo imparato la libertà di scegliere il meglio del meglio. Recentemente stiamo ascoltando tanto Balthazar e Idles''.

Per gente che fa indie-rock (i critici – quelli “bravi” – schifano oramai da tempo questa definizione, ma per me è sempre perfetta) non dev’essere facile. Sembra che il rock sia sparito, almeno a casa nostra. In redazione arrivano album di ogni tipo: cantautori, metal, tonnellate di elettronica, musica sperimentale, jazz, etno-folk. Ma di rock ce n’è pochissimo, e piace ai diversamente-giovani come me. E le band simbolo di un certo modo di fare musica – dagli Afterhours ai Marlene, dalle varie creature di Capovilla (One Dimensional Man, Teatro Degli Orrori, Buñuel) agli Zen Circus, sono tutta gente oramai su con gli anni. Perchè i giovani si sono buttati altrove, secondo voi? Ci volevano davvero i Maneskin per riportare in scena un po’ di chitarre? ''Basta allargare un po’ lo sguardo all’evoluzione della musica cosiddetta leggera per vedere che certe oscillazioni nei gusti di massa ci sono sempre state: non è vero che il rock è stato sempre primo in classifica fino al ’94, anche se l’impoverimento culturale degli anni ’80 ha di certo avuto ripercussioni sull’originalità delle nuove proposte discografiche “alternative”, aprendo varchi enormi ad esempio all’hip-hop, ed ora ai Maneskin. Questo per dire: oggi è così, domani sarà ancora diverso, sono oscillazioni fisiologiche di qualcosa che semplicemente non morirà mai. Per dirla come una band che hai citato “non si esce vivi dagli anni ‘80” ma “non c’è niente che sia per sempre”''.

Alla fine, siete in giro da vent’anni: cos’è cambiato là fuori, e come siete cambiati voi? ''Se le nostre vite individuali sono cambiate radicalmente e mille volte, il nostro legame è rimasto lo stesso di 20 anni fa, ed è questo filo rosso emotivo che ci permette di durare molto più della media delle altre band, a prescindere da quello che ci succede intorno''.

“Non si vendono più i dischi, tanto c’è Spotify”, non lo dice solo Willie Peyote: la musica è liquida e vivere di musica è quasi improponibile, a meno di essere nel giro grosso (che oggigiorno è sempre meno grosso): quali erano e quali sono le aspettative, le ambizioni, le possibilità adesso e allora? Vi va di ripercorrere questi vent’anni attraverso i vostri album? ''Per noi la carriera di musicista, in particolare di musicista rock, è in assoluto la professione che dà più libertà in assoluto di qualsiasi altra, di qualsiasi luogo e di qualsiasi epoca (fatta eccezione forse per il monarca assoluto di epoca medioevale o il faraone, ma senza le contraddizioni di asimmetria, coercizione e potere). Da una grande figata derivano grandi sforzi per ottenerla, e la consapevolezza che potresti non ottenerla mai. Ma il gioco vale la candela, e il percorso per provarci è divertente e arricchente. Rispetto alla seconda domanda, ci vorrebbe un’intervista a parte :)''.

Mi piace il modo di scrivere di Rocco, mi ricorda le cose che scrivevo io quando secoli fa ero voce e chitarra in una band: poi è finita male, ma pazienza, ci siamo divertiti. Per il mio orecchio, il bello di “Mono” – ma non solo - è quel misto di aggressività e tristezza: i pezzi sono veloci, ritmati, concisi, vanno subito al punto. Spesso sono in tonalità minori, cosa che mi rende felice e che – opinione personale – rende più bella una canzone. Nei testi leggo disillusione, amarezza, un che di fatalismo e molti ricordi. E’ un disco apertamente laico, eppure Dio è una presenza incombente, sempre sbagliata e fuori luogo... e c’è ancora rabbia come in passato, ma forse è declinata in modo diverso: è più un guardare indietro perchè il tempo scorre e gli anni sulle spalle aumentano, o perchè per guardare avanti serve lo Zoloft? Qual è lo zeitgeist che sta dietro “Mono”? ''È verissimo che gli accordi minori hanno una maggiore “portata” estetica: questo perché l’arte in generale serve a comunicare il disagio della condizione umana all’umanità stessa, e la musica non fa eccezione, anzi, è per Schopenhauer l’arte per eccellenza in questo ruolo di messaggero ancestrale. I nostri pezzi in minore con alti bpm, quando piacciono, piacciono perché forse comunicano con onestà e senza giri di parole la merda esistenziale in cui ci troviamo, senza però soccomberne, senza cedere all’immobilità, ma incanalandone la frustrazione in qualcosa di condiviso e in definitiva consolatorio. Lo zeitgeist di ''Mono'' è onnipresente, dal pezzo che chiude il disco, al concept del video di ''Astronauta''. A ben guardare già dalla copertina. E qui si amplia il discorso all’infinito: essendo il disco che più di tutti gli altri parla di noi personalmente, ci rientra tutta la nostra visione del mondo… Saremo felici di riparlarne più avanti quando anche noi l’avremo un po’ più “digerito”, perché ci stiamo accorgendo man mano di quanto sia un disco denso (forse anche per il tempo che è passato da ''Senza paura delle rovine'')''.

Grazie per il vostro tempo e soprattutto per quel piacere psicofisico di cui sopra: statemi benone, con l’augurio di poter tornare presto ad esibirvi live, vostra dimensione naturale. (Manuel Maverna)