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   (2024)


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   (2024)

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THE CURE   "Live 02 Arena Londra 26-02-2009 "
   (2009)

A distanza di un giorno dalla cerimonia di premiazione dei NME Awards 2009, i Cure si apprestano a chiudere quali headliner la festa musicale organizzata dal magazine New Musical Express. Nella giornata “dei premi” del giorno precedente la band di Robert Smith aveva dato vita ad un mini concerto celebrativo della trentennale carriera dei Cure; oggi la serata sarà esclusivamente incentrata sulla musica, per uno show che prevede anche le esibizioni di White Lies, Crystal Castles e Franz Ferdinand. I manifesti che pubblicizzano l’evento indicano che il live set dei Cure sarà di novanta minuti: al pubblico presente spetterà il compito di verificare se Robert Smith rispetterà gli accordi presi o se, più verosimilmente, regalerà qualche minuto aggiuntivo di musica. Staremo a vedere. La 02 Arena di Greenwich (originariamente nota come Millenium Dome) è un grande palazzetto davvero imponente, costruito per festeggiare l’arrivo del terzo millennio. Di fatto, più che un semplice palazzetto dello sport è un grande salone espositivo; una tensostruttura con la forma di grande cupola in cui sono presenti innumerevoli ristoranti, negozi, giochi e svaghi. È così imponente che domina il panorama di Greenwich e visitandola si ha quasi l’impressione di trovarsi all’interno di una città nella città. Alle 19.00 inizia lo spettacolo dei White Lies. L’esibizione dei tre musicisti ci convince in pieno e non fatichiamo ad immaginarceli come una nuova band che percorre la via già intrapresa da Editors e, precedentemente, da Interpol. I White Lies, invero, sembra che abbiano i numeri per esprimere anche qualcosa di più. In bocca al lupo. I Franz Ferdinand (anticipati dagli imbarazzanti Crystal Castles) si confermano, al terzo album, come una piacevole realtà della musica internazionale. Lo loro è un’esibizione in cui non fanno mancare i classici ballabili hits del disco d’esordio, ma soprattutto segnaliamo quanto riescano a dare vita ad una prova carica d’energia ed ottimamente suonata. Ma, alle 21.30 in punto cresce l’attesa per i Cure e, mentre il vociare si fa più insistente, entrano uno dietro l’altro i quattro musicisti. Spicca il leader in completo nero e maglia col cappuccio; Simon Gallup con il consueto chiodo e Porl Thompson con la sua testa dipinta. Ci sono pochi dubbi in merito al brano scelto per aprire il concerto odierno. “Underneath the stars” è il pezzo da novanta dell’ultimo album in studio ed il riproporlo quale brano rompighiaccio è decisamente una scelta azzeccata. La sua delicatezza e la sua poesia sono una delle vette massime raggiunte da Robert Smith, almeno negli ultimi dieci anni: a conclusione del brano, tutta l’arena si sente già in trance, accarezzata da una musica capace di commuovere chiunque. Ma con “From the edge of the deep green sea” si cambia rotta per la prima rock song della serata; Porl Thompson (coraggiosi i tacchi delle sue scarpe!) è subito chiamato in causa in un prezioso assolo di chitarra che dimostra la sua grande bravura ed il suo virtuosismo. Spazio alle nuove composizioni: “The perfect boy”, “Sleep when I’m dead” e successivamente “The only one” sono i tre singoli di “4:13 dream” che vengono realizzati per la serata odierna (peccato non ci sia stata l’inclusione di “Freakshow”). Una curiosa nota di colore arriva proprio da Robert Smith il cui viso tradisce, sulla guancia destra, un segno rossastro, probabilmente lasciatogli dalle labbra di una fan (riteniamo, invero, che il presente non debba costituire pericolo per la moglie Mary!). Con grande sorpresa del pubblico, alla sesta canzone i Cure tirano fuori il marchio di fabbrica della ditta e, con “A forest” (solitamente proposta verso la fine del concerto) le reazioni sono entusiastiche. Il livello viene tenuto altissimo con “Three imaginary boys”, “Shake dog shake” (sicuramente una delle migliori esecuzioni di oggi) e “Maybe someday” (una piacevole ripescata di “Bloodflowers”), mentre con “The only one”, “Inbetween days” e “Just like heaven” arriva un trittico di pop song che accontenta tutti i palati. “Primary” anticipa a sorpresa il bellissimo dark di “Want” che Smith e soci non suonavano da diverso tempo, ed il pubblico soddisfatto ringrazia con un fragoroso applauso. “The hungry ghost” (il capitolo meno felice di oggi) precede tre canzoni strepitose per chiudere i novanta minuti di spettacolo, previsti dall’organizzazione. “Disintegration” è l’unica canzone proposta dall’impareggiabile album targato 1989; “One hundred years” è il solito macigno capace solo di far scatenare tutti; “It’s over” (Simon Gallup si esalta con i coinvolgenti giri di basso) è l’ottima canzone che venne scelta per chiudere il tredicesimo in studio dei Cure. Il concerto dovrebbe essere finito ma, come previsto, Robert Smith tende a non rispettare i patti e insieme ai compagni d’avventura rientra sul palco per proporre un set di canzoni legato al primo periodo di attività della band. “Boys don't cry” è il pezzone che tutti stavano aspettando per cantare in coro. “Jumping jumping someone else's train” è un altro singolo che mantiene il ritmo (anzi viene accelerato!) e “Grinding halt” scatena il pandemonio in tutta l’arena. A questo punto lo schema sembra già tracciato: è “10:15 saturday night” che precede l’ultimo brano della serata. “Killing an arab” è come di consueto urlata da leader e dai fan che non si risparmiano le restanti energie per un brano che non ha epoca. Tra gli applausi, Robert Smith è l’ultimo ad abbandonare il palco; con la mano sul cuore e con la consueta cavalcata ciondolante si avvicina al microfono. “Thank youuuu and see you again”. Lo spettacolo finisce. (Testo Gianmario Mattacheo - Foto Silvia Campese)