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NERO KANE "Live Circolo Gagarin Busto Arsizio VA 11-10-25"
(2025)
E’ mezzanotte e un quarto di un sabato sera d’ottobre, quando Luca, Arturo ed io usciamo dal Circolo Gagarin di Busto Arsizio e ci incamminiamo verso il parcheggio dove abbiamo lasciato le macchine.
Arturo, che vive a Busto Arsizio, ci guida, ma sbaglia orribilmente e ci porta dalla parte opposta, meritandosi insulti vari. Siamo amici da una vita, da giovani eravamo pure i tre quarti di una band (il batterista Andrea, che abita vicino, fa il vigile urbano e stasera era di pattuglia, quindi manca all’appello), ma non ci vedevamo da un po’, quindi approfittiamo dell’errore di Arturo e via col bla bla bla.
Abbastanza prevedibilmente, il tema dominante è il concerto di Nero Kane cui abbiamo appena assistito, ed al quale ho convinto entrambi a presenziare, nonostante Luca si sia mostrato abbastanza impreparato sull’autore e Arturo – molto più ferrato, ma sempre e solo grazie a me – avesse precedentemente dichiarato che lui le canzoni di Nero Kane riesce ad ascoltarle per non più di tre minuti, perché poi gli viene da piangere.
Benché dichiarino di avere apprezzato il mood generale, entrambi iniziano a sollevare diverse critiche, di fronte alle quali (nel frattempo Arturo ha trovato forse la strada giusta per il parcheggio) con composto rispetto mi indispettisco e mi inalbero. Quando poi sopraggiunge un appunto che taccia di monotonia le canzoni, prendo posizione in modo netto ed apertamente schierato.
Proprio: mi fermo al centro del marciapiede. Per una decina di secondi, non si accorgono della mia sosta polemica e continuano a camminare, proseguendo nella loro sfaccettata disamina. Poi, si accorgono della mia assenza: si arrestano, si girano a cercarmi e mi vedono piantato come un paracarro, a braccia conserte.
“No!”, esclamo risoluto nella notte. “Voi di Nero Kane non avete capito niente”, sentenzio con fermezza, mentre mi preparo a snocciolare l’atto di accusa.
“Sentiamo, maestro”, sibila Arturo con un sorriso tra il beffardo ed il divertito, unito ad un gesto plastico del braccio (ha recitato in teatro per lungo tempo, ed ancora se ne occupa: parla tuttora seguendo la dizione appresa in anni ed anni di studi attoriali).
“Illuminaci d’immenso”, mi schernisce Luca, che ha finezza di pensiero e cultura musicale da vendere, ma che non ha titolo per parlare di un argomento che non ha studiato a casa.
Da lì, parto con la mia arringa, un po’ improvvisata, un po’ meditata.
In primis, domando con la consueta saccenza, affatto dissimulata: “Vi siete mai chiesti se questa che avete appena ascoltato sia musica con finalità di intrattenimento?”.
E poi: “Quelle che voi chiamate sbrigativamente canzoni, vogliono essere canzoni o sono altro?”.
E ancora: “Non avete avuto l’impressione di trovarvi al cospetto di una forma d’arte altra, che non si fermi a testo-contenuto-musica, col corredo di strofa-ritornello-strofa-bridge-ritornello?”.
“In pratica – concludo – questo forse non era nemmeno un concerto, almeno non nel significato che voi attribuite alla parola concerto”.
“Secondo me, ci starebbe bene una batteria”, commenta Arturo mentre cerchiamo le macchine.
Rimango immobile, come Vladimiro ed Estragone.
“Voi non potete cercare o agognare il ritmo – sostengo infervorato, ma con classe – perché non sono né il ritmo né un chorus, né una variazione né un’accelerazione a definire ciò che avete vissuto. E badate bene: dico - lo calco all’inverosimile - vissuto, non ascoltato, perché la definizione di musica qui va strettissima, cari miei. E se ci fossero accenti ritmici sostenuti, o una diversificazione insistita del canto, non sarebbe la stessa cosa. Questo è un mantra, altro che un set di canzoni”.
E questo è un happening sui generis, un’occasione di trasportare le coscienze al di là della canzone.
E’ un evento che agisce sull’anima, delinea un’esperienza e te ne fa dono, fondendo sì testo-contenuto-musica, ma legandoli ad un impatto visivo, sonoro, mentale. Azzarderei quasi: psicologico.
Misticismo, meditazione, introspezione. Altro che musica.
Lì, nella sala del circolo Gagarin di Busto Arsizio, due figure stanno sole sul cuore della terra, la terra che è un palco - la parte per il tutto - avvolto da una persistente luce rossa. Non intendono compiacere o allietare i convenuti a questo tempio di provincia: offrono il codice di accesso ad una dimensione ignota.
Venghino dunque, signore e signori, entrino al cospetto di Nero Kane e Samantha Stella, spiriti eletti, cerimonieri d’eccezione, sodalizio inscindibile la cui arte rarefatta e preziosa travalica gli effimeri confini del mero intrattenimento, forse addirittura i confini dell’espressione musicale in sé. Comunicano in codice, al di là dell’angusto spazio di una canzone, ed ogni loro canzone è più di una canzone.
Forse, è altro rispetto ad una canzone.
E questo non è un concerto: è una messa pagana, una liturgia che la coppia officia con sciamanica, ritualistica solennità, sacralità laica a beneficio degli adepti. Poco conta essere, qui ed ora, in tre o in trecento, in fondo alla sala o seduti a terra davanti alle casse, magari ad occhi chiusi in muta contemplazione. Siamo qui raccolti nel nome di un’idea condivisa, altro che concerto.
Impassibili nella loro elegante, impeccabile estetica virata noir, eseguono fedelmente - così com’è sul disco, compresa la traccia strumentale presente solo in cd e in digitale - la scaletta del recentissimo “For the Love, the Death and the Poetry”, senza alcuna concessione ai tre album precedenti. Tra i brani, non c’è quasi stacco: l’integrità dell’opera non può e non deve essere spezzata, frammentata, violentata dalla routine dell’applauso, che in un paio di occasioni arriva pure, ma è timido, rispettoso, pacato. Il discorso è ininterrotto, la continuità va preservata, la celebrazione è tesa, vibrante, buia. Essendosi autoimposto fedeltà assoluta alla tracklist dell’album, Nero è chiamato a continui cambi di chitarra, tra arpeggi trasognati e bottleneck in tripudio; non sceglie di rivoluzionare l’ordine dei pezzi, perché quello è l’ordine, quello è il sermone, quello è il canone, e non può e non deve essere sovvertito. Sarebbe come anteporre la Comunione al Credo.
Circa a metà del set, arriva il momento di “The World Heedless of Our Pain”, sette minuti con canto a due voci, avvolte a spirale l’una sull’altra, due voci intrecciate come serpi, sinuose ed ipnotiche, suoni tra i suoni. Appoggiato ad un muro, nell’oscurità, fisso il nulla e lascio che quella trenodia faccia il resto, scivolandomi tra i pensieri e plasmandoli come vuole. Sono inerme, accetto che mi possieda.
Questo non è un concerto.
Apre con un brano di nove minuti per sola voce, chitarra e synth, incombente litania nuda che riecheggia, rimbalza, lievita, collassa.
Chiude con un’impalpabile elegia per sola voce, chitarra e synth, affidata al lirismo drammatico di Samantha.
Non è divertimento, non è un passatempo: è un investimento sul sé, che dell’entertainment si disinteressa. Prescinde dalla godibilità, non la cerca, la respinge. Con garbo, senza spocchia. E’ un mezzo per un fine, che solo indirettamente aspira al bello, non ammiccando al piacere, rifuggendo fruibilità e gradevolezza, inseguendo una catarsi che coinvolga tutti i sensi, lontana dalla musica tout court.
Quando si spegne l’ultima nota, un applauso sincero saluta l’uscita di scena, che avviene in punta di piedi, preceduta dai ringraziamenti di entrambi. Senza bis o sceneggiate. Non un minuto di più, non uno di meno.
Andate in pace.
Siamo arrivati al parcheggio, ci salutiamo.
Da lontano, Arturo mi chiama: “Manuel, ma dimmi un po’: loro due, nella vita, stanno insieme? Ad un certo punto, lei gli ha anche sistemato i capelli”.
Rido, mi lascio andare ad una divertita espressione irripetibile.
“Voi di Nero Kane non avete capito niente”, concludo a mezza voce mentre salgo in macchina e metto in moto.
“Può essere”, chiosa Luca, seduto a fianco a me, dal lato passeggero. (Manuel Maverna)