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ROXY MUSIC   "Live Auditorium Cavea Roma 19-07-2006"
   (2006)

Dalle nebbie di Avalon, risorgono i Roxy Music, e Roma, per un paio d’ore, rimette le lancette indietro di 24 anni. D’accordo, bisogna arrangiarsi con la fantasia per respirare ancora, tra gli spalti di una Cavea non certo gremita (e con la politica dei biglietti a 50 euro è dura sperare il contrario), le essenze neoromantiche di un 1982 ancora impregnato di estetica wave ed edonismo synthetico. Qui al massimo c’è rimasto il profeta dell’edonismo reaganiano (l’immancabile Roberto D’Agostino, in perfetto look da intellettuale annoiato), in mezzo a una pattuglia di teste brizzolate e peones del bel rock che fu. Anche il distacco fisico tra la prima fila di seggioline e il palco non contribuisce certo a scaldare il feeling. Eppure, quando all’improvviso ti ritrovi sul palco un Bryan Ferry nerovestito dietro le tastiere, un Phil Manzanera tirato a lucido con tanto di completo viola (!) e un Andy MacKay in doppiopetto blu e fido sax alla mano, il cuore ti balza subito in gola. E se questi vecchi leoni albionici osano per di più attaccare il concerto del ritorno dopo 24 anni (fatta salva l’effimera reunion del 2001) con “Re-Make / Re-Model”, la mente e il cuore non possono non tornare ancora più indietro, a quel suono tutto lustrini, paillettes & lampi di genio di un album come “Roxy Music” (1972), pietra angolare del glam-rock, dell’art-rock, del jazz-rock e di tutto quello che volete. La prima traccia di quell'esordio dirompente è dunque l'incipit di un’esibizione che amalgamerà sapientemente le varie fasi della carriera della formazione inglese, fasi che - è bene ricordare - non sono affatto da suddividere rigidamente in "con Eno/senza Eno" (con relative patenti di qualità), perché questa è sempre stata soprattutto la band di Bryan Ferry, e il suo percorso di progressivo avvicinamento al pop non ha mai dissipato il marchio di fabbrica originario dell'eleganza e di una straripante verve melodica. Ma l'avvio è tutto per gli albori dell'era Roxy, con una tripletta da pelle d'oca: dopo la filastrocca schizoide di “Re-Make / Re-Model”, con Manzanera e MacKay scatenati sul palco a sfidarsi come due ragazzini, tocca a "Pyjamarama", il singolo del 1973 mai edito su album, col suo folle groove funk. Poi, il buio... MacKay riappare al centro della scena ed estrae dal suo oboe una melodia magica. Ti stropicci gli occhi e non riesci a credere che sia proprio "Ladytron"! E' un'apoteosi di suggestioni glamorous: Ferry domina il palco, col suo baritono suadente, appena intorbidito dagli anni, Manzanera inanella riff su riff, MacKay si lancia al galoppo col suo sax che squarcia anche l’afa della torrida serata romana. "Rock mutante" potrebbe essere la definizione appropriata, eppure non basterebbe a esprimere l'incredibile varietà di trovate sonore di questa ballata "lunare", come venne definita all'epoca dallo stesso Ferry. L’allampanato leader, solito charme e solita frangia corvina, lascia spesso il palco per concedere la ribalta alla band in lunghe code strumentali. Una formazione allargata a dieci elementi, con Andy Newmark alla batteria, Colin Good al piano, Guy Pratt al basso, Oliver Thompson e Leo Abrahams alle chitarre più due feline coriste afro. Poi, il ritmo scende. Arriva la carezza sensuale di "While My Heart Is Still Beating", uno dei classici di "Avalon", il bestseller del 1982 che chiuse in gloria l'epopea-Roxy. E ancora – preceduti dall’altro rock frenetico di “Out Of The Blue” (“Country Life”, 1974) - la delizia romantica di "Oh Yeah" e l'electro-soul da cuori infranti di "My Only Love", con Ferry crooner inconsolabile a ridare vita ai due hit di "Flesh + Blood" (1980). Paradossalmente, è proprio nei brani più recenti che si avverte maggiormente la stanchezza. C’è un pizzico di maniera, di distacco. Ma la classe è quella di sempre, e ci basta e avanza. Tanto più che è tempo di scaldarsi al ritmo di "Bogus Man", il tour de force dell'altro capolavoro "For Your Pleasure" (1972): una danza della giungla in due quarti che i Nostri interpretano col fervore stralunato dei tempi d'oro. Il ritmo martellante e il sax ossessivo di “Both Ends Burning”, fiore all’occhiello di “Siren” (1975), alzano ancora l’adrenalina. Ma la band alterna la spada al fioretto: ecco allora il dolce esotismo di "Tara" (strumentale da "Avalon"), con Mackay mattatore al sax soprano, accompagnato dalla chitarra acustica di Abrahams e dal piano di Good, e una versione dilatata di “A Song For Europe” che riesce a essere quasi più suggestiva di quella incisa su “Stranded” (1973). Ma è niente in confronto allo struggimento infinito di "In Every Dream Home A Heartache", l’unica love-story con una bambola gonfiabile della storia del rock: Ferry la interpreta con quel piglio sensualmente decadente che lo ha reso unico, supportato solo da sax e tastiere, prima che Manzanera si getti in un nuovo assalto chitarristico, con la band a pieno organico. Una gemma per i cultori, che apprezzano commossi. Per tutti, invece, c'è un tris di hit dall'applauso garantito: la sinuosa "Avalon", che esalta i virtuosismi delle due coriste, una versione asciutta e ficcante di "More Than This" e l'immancabile cover della lennoniana "Jealous Guy", fischiettata da Ferry da par suo. Il finale riserva nuove chicche. “Editions Of You” e “Do The Strand”, altri due pezzi da novanta di “For Your Pleasure”, diventano l’occasione per un baccanale festoso e irriverente, e sembra di vederli divertirsi davvero, questi signori di mezza età, a rimettere in scena il loro cabaret dell’assurdo. Poi i saluti di prammatica, col proverbiale aplomb britannico. E’ la fine? No, c’è ancora posto per una “Love Is The Drug” cantata in coro con un pubblico ora finalmente libero di ballare sotto il palco, perché l’amore per questi tre moschettieri d’oltremanica è una droga davvero. E alla fine, con gli occhi quasi lucidi per l’emozione, resta solo il rammarico per l’inaspettato taglio degli ultimi due bis in programma, e che bis! (“Virginia Plain” e “Let’s Stick Together”). Ma di fronte a una scaletta così (che è pur sempre la summa di un repertorio immane), tanto di cappello. Perché come ha detto Phil Manzanera: "A noi piace suonare anche per i fan di vecchio pelo. Mi fanno ridere quei rockisti che propongono cose sempre nuove, solo perché hanno una paura fottuta di invecchiare. Invecchiare è naturale: meglio farlo bene". Parole sagge. For our pleasure. (Claudio Fabretti)