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RADIOHEAD   "Live BBK Live Bilbao 13-07-2012 "
   (2012)

È il main event del sabato sera, quello che vede impegnati i Radiohed in quel del BBK Live di Bilbao, il festival che porta nella città dei Paesi Baschi migliaia di giovani e meno giovani, accomunati dall’amore per la musica. I Radiohead, esplosi nei primi anni ’90, sono diventati una delle band più seguite e rispettate del globo, dapprima con un rock puro e decadente e, successivamente, con un’impostazione elettronica che ne ha radicalmente mutato la rotta. Cresciuti intorno all’immagine di sfigato antieroe (ed aggiungiamo assai poco simpatico) propria del frontman Thom Yorke, i Radiohead hanno un organico da sempre cristallizzato nella medesima line up: il già citato Yorke, Jonny Greenwood, Colin Greenwood, Ed O’Brien e Phil Selway. Mi aspettavo un Tom York dimesso sul palco, nello stile dei primi video ed immagini che circolavano al tempo di “Creep” e di “Pablo Honey”, ed invece il cantante, chitarrista e pianista del gruppo si muove come un tarantolato, in perfetta linea con la nuova direzione musicale adottata dai Radiohed. In realtà, non avendolo mai osservato dal vivo (e volendo essere maligni) ci sembra che il leader del gruppo sia andato a scuola di Primal Scream e delle mosse che sul palco tiene Bobby Gillespie: insomma, piace la sua presenza scenica, ma i dubbi che sorgono sono legati ad un’eventuale originalità della stessa. La voglia ostentata di essere altezzoso e distante si tramuta anche sulle immagini che vengono proiettate sullo schermo: mai un primo piano, immagini confuse e volutamente caotiche per un monitor che risulta assolutamente inutile a tutte le persone che non hanno potuto guadagnare un posto tra le prime file. Stiamo parlando di una grande band, su questo non si discute. Si potrebbe dibattere, invece, su quanto e fino a che punto la produzione del gruppo di Oxford abbia un senso, per quesiti che hanno coinvolto personaggi illustri del music business. Scomodando dapprima Robert Smith che, in un’intervista di qualche anno fa, disse che l’ultimo album decente del gruppo doveva essere individuato in “The bends” (fin troppo severo, io mi sarei fermato a “Ok computer”), per arrivare al decisamente meno elegante Billy Corgan degli Smashing Punpkins che, in una recente intervista, dichiarava di voler pisciare sui Radiohead. Insomma, la band inglese, sia per apprezzamenti, sia per critiche negative, è sempre al centro dell’attenzione, anche quando le novità musicali prodotte sono ormai solo un vecchio ricordo. Un concerto, inoltre, assai difficile da vivere con serenità, se pensiamo che gli spagnoli (eccezion fatta per i fedelissimi) vivono questo concerto (ed il festival in generale) come un luogo in cui si deve fare del baccano ed in cui i gruppi che suonano sono solo un disturbo alla cagnara che contribuiscono a creare (certamente avrebbero preferito un DJ set di musica house). Persone che bivaccano dando le spalle al palco (ma si sono accorti che sul palco ci sono i Radiohead?), altre che orinano a pochissimi passi da altri spettatori, ci confermano che questo festival è uno dei più caotici e meno efficienti che abbia mai visto. Sul versante più musicale, possiamo dire che il concerto, iniziato alle 23.30 come da programma, parte con “Bloom”, l’ipnotico brano d’apertura del recente “The king of limbs” (ottavo e per ora ultimo album in studio), in cui campionamenti ed elettronica varia si mescolano abilmente agli strumenti più tradizionali. Con “15step” (da “In rainbows”) si scende di tono per un brano che, già nella versione di studio, aveva poco mordente e scarsa appeal (dallo stesso album è preferibile l’esecuzione di “Nude”, più malinconica e sognante). Uno dei momenti più alti si ha con “Pyramid song”, la splendida canzone portabandiera di “Amnesiac” in cui la voce acuta e allo stesso tempo strascicata di York si mescola perfettamente con le trame sonore (minimali in questo caso) degli altri Radiohead. Sempre da “Amnesiac” è “I might be wrong”, che si fa apprezzare per il narcotico ed alienante sound, in cui la sessione ritmica detta il tempo all’intero pezzo. Una delle gioie assolute di stasera si ha quando i Radiohed sfoggiano “Karma police”, il singolo trascinatore di “Ok computer”. Il sound ci porta dentro un film assurdo e affascinante che, fantasticando, potremmo pensare diretto da David Lynch (ma era più che indovinato anche il video del 1997); peccato che dallo stesso album il gruppo abbia scartato “No surprises”, divenuto un inno del suicidio anni ’90. “Lotus flowers” forse è il punto massimo dello sperimentalismo Radiohead (ci ricordiamo anche il video in cui Yorke assume delle movenze che ci ricordano il nano di “Twin Peaks”), mentre “Kid A”, osannata da tutti, concede circa cinque minuti di elettronica, campionamenti, poca melodia e tanto compiacimento. Dopo la piacevole e ambient “Give up the ghost”, il finale è per il classico “Paranoid android”, uno dei tanti portenti di “Ok computer”. Aspettiamo questo momento per quasi tutto il concerto, anche se la sua resa risulta leggermente al di sotto delle aspettative. Pare, infatti, che il gruppo suoni l’ultimo brano quasi per onor di firma e non perché la sua esecuzione sia particolarmente sentita dagli autori. Altri brani che musicalmente ci convincono meno, sono stati eseguiti con una verve assolutamente superiore, ma il capolavoro datato 1997 è un po’ sterile e poco efficace: peccato. Si chiude così un concerto che fa esultare i fan più accaniti del gruppo e quelli che amano ogni fase artistica di Yorke e company. Per tutti gli altri, tutti quelli che ritenevano “Creep” (scontato che non l’avrebbero suonata… ormai si sentono fighi e non più sfigati!), “The bends” e “Ok computer” album fondamentali nella discografia degli anni ’90, lo show di oggi lascia parecchio amaro in bocca. (testo Gianmario Mattacheo; foto Silvia Campese)