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NICK CAVE "Live Piazza Sordello Mantova 16-07-25 "
(2025)
Tra un disco, un tour con i Bad Seeds, un altro disco e un altro tour, Nick Cave pare essere in balìa del ballo di San Vito, praticamente ponendo in essere concerti a ciclo continuo. Come se non bastasse, infatti, appena concluse le date con i Cattivi Semi, si è imbarcato in una mini tournèe europea per una serie di concerti in esibizione solitaria, fatta eccezione per l’accompagnamento del bassista Colin Greenwood.
Con un po’ di curiosità mi reco a questo live, ben sapendo come il Cave solista rappresenti un’eccezione rispetto alle consuete performance.
Questa non è una novità assoluta, in quanto Cave, in passato, si prese già qualche “libera uscita” dai Bad Seeds, e proprio Mantova fu una delle mete toccate dall’australiano, quando si cimentò, anni indietro, con il solo piano ad accompagnare la sua cavernosa baritonale voce.
Si tratta, come è facile intuire, di interpretazioni profonde e scarne, ed è Cave a specificare il piacere di presentarle nella stessa maniera in cui le canzoni vennero proposte per la prima volta ai Bad Seeds.
È “Girl in amber” che ha il compito di aprire un concerto in cui il molto spazio è dedicato al dialogo con il pubblico.
È un Cave sereno come mai mi era capitato di osservare. Re inchiostro ne ha attraversate di ogni nella sua vita e, per ogni fase della sua non comune esistenza, si realizzavano show che rispecchiavano quel momento particolare. Dal tormento tossico degli anni ’80, alla ribellione, alla redenzione, fino ad arrivare alla rappresentazione del dolore per la morte dei figli. Adesso Cave sembra un uomo sereno e in pace, a cui piace fare musica, aggiungendoci molta autoironia. Qui, infatti, si prende in giro parlando di alcune canzoni dalla lunghezza oceanica o, ancora, scherza dicendo che la canzone successiva sarà molto Nick Cave, ovvero molto triste (“Jesus of the moon”).
Dopo l’ironia e le parole al pubblico, torna al suo amato pianoforte, cambiando immediatamente mood, per ritornare all’intensità delle canzoni. Il caso più eclatante è “I need you” (da “Skeleton tree”) in cui lo schermo di Piazza Sordello inquadra un primo piano dell’artista visibilmente commosso (e sì, lo zoom della macchina fotografica ci fa vedere qualcosa di più che occhi lucidi).
Quando parte “Papa won't leave you Henry” ascoltiamo non solo uno dei pezzi più belli di “Henry’s dream”, ma anche uno dei più coraggiosi se pensiamo alla dimensione acustica/intimistica di stasera. Ricordo un vecchio concerto a Torino in cui lo spettacolo venne aperto da questo brano, con un Cave indiavolato a gettare l’asta del microfono dietro il palco e dimenandosi come se non ci fosse un domani. Ebbene, rileggere il brano di apertura dell’album del 1992 in chiava raccolta è sicuramente una scommessa (se poi è una scommessa totalmente vinta, lascio a voi la sentenza definitiva).
Non si dimentica delle persone che fanno parte del suo universo. Dedica canzoni alla moglie Susie Bick (presente in platea), fa accenni in più occasioni ai Bad Seeds e gratifica il compito sul palco di Colin Greenwood, attento, essenziale, ma fondamentale per la riuscita del concerto.
“The mercy seat” e “The ship song”, una dietro l’altra, sono due brani capaci di farti andare oltre. La prima per la sua ormai consueta cavalcata irresistibile e la seconda perché rappresenta quel pezzo che coniuga malinconia, dolcezza, nel breve volgere di pochi minuti.
Nick Cave sceglie di attingere da molti album della sua discografia. Anche ripescaggi da “Ghosteen” (penultimo in studio e uno dei meno felici), e poi qua e là tra i vari titoli, fino ad arrivare ad estratti da “Wild god”, l’ultimo e brillante lavoro con i Bad Seeds.
Una doverosa citazione spetta a “Balcony man” ma non tanto per il pezzo o per la sua esecuzione, quanto per il siparietto che il cantautore crea con due persone che da un balcone della Piazza si stanno godendo lo spettacolo.
In mezzo a tanti titoli (sono 18 gli album in studio, senza contare collaborazioni o lavori con i Birthday Party), Cave presenta anche un paio di cover. “Cosmic dancer” dei T Rex è un brano che non delude e “Avalache” di Leonard Cohen è sicuramente una delle più gradite (già inserita nell’album d’esordio “From her to eternity” con un Cave che confessa quanto il brano sia stato una vera rivoluzione per lui).
Per i bis, Cave chiede ai membri della sicurezza di fare avvicinare il pubblico alle transenne. Ammetto che la visuale non migliora per nulla (il palco alto e lo stare seduto al piano limitano molto), ma si crea un effetto di magica comunione tra i presenti che rendono gli ultimi minuti del concerto davvero speciali.
Una fantastica “Love letter”, la già citata canzone di Bolan (assolo da maestro di Greenwood) danno vita a uno dei momenti più alti di stasera.
Poi Cave rimane solo sul palco per consentire a “Into my arms” di mettere la parola fine al concerto (ma davvero?), per quel brano inno della dolcezza caveiana, che tutti, ma proprio tutti, desiderano sussurrare al suo autore. (TESTO E FOTO: GIANMARIO MATTACHEO)