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BAUHAUS   "Live Alcatraz Milano 13-02-2006 "
   (2006)

La reunion dei Bauhaus è, indiscutibilmente, uno degli eventi musicali tra i più attesi degli ultimi anni e, altrettanto indiscutibilmente, rappresenta un appuntamento irrinunciabile per gli amanti della musica dark. Si capisce, allora, come la data fissata all’Alcatraz di Milano il 13 febbraio u.s. abbia, senza troppa difficoltà, fatto registrare il “tutto esaurito”; tutti pronti, insomma, per vedere la band di Peter Murphy e soci dal vivo. Per chi scrive, inoltre, il motivo di interesse rimane elevato, in quanto non riuscimmo ad assistere alla loro ultima esibizione italiana (nel 1998, sempre all’Alcatraz di Milano) e, quindi, da “vergini” spettatori dei Bauhaus ci apprestiamo a verificare se la storica dark/gothic band sia ancora credibile nell’anno 2006. Ma, chi sono i Bauhaus? La band nasce a Northampton, in Inghilterra nel 1977 e vi fanno parte il chitarrista Daniel Ash, il bassista David J, il batterista Kevin Haskins e soprattutto Peter Murphy, scheletrico cantante dalla voce profonda che si rifà un po’ a David Bowie ed un po’ a Iggy Pop. Nel breve volgere di pochi anni, dalla pubblicazione del primo singolo “Bela Lugosi’s dead”, i Bauhaus diventano uno dei gruppi più rappresentativi e importanti di un intero genere musicale, rispettati ed apprezzati anche da chi non amava suoni così lugubri e nichilisti. La loro influenza e la loro grandezza sono così evidenti che, ancora oggi, non esiste serata dark in cui manchino brani della band inglese, divenuti dei veri e propri classici, capaci di far ballare e di far sognare chiunque. Da queste premesse si può comprendere come l’Alcatraz sia stracolmo di persone, dai vecchi dark (molti di essi, fan storici del gruppo), alle “nuove leve” di giovanissimi gotici, fino ad arrivare a personaggi famosi (scorgiamo Andy dei Bluvertigo). Padrone di casa è il colore nero e un accurato gusto per il trucco che si sfoggia con libertà e secondo la propria attitudine, seguendo il consueto copione. Mentre i quattro Bauhaus fanno il loro ingresso, pronti per iniziare lo show, il pubblico concede loro un’ovazione esemplare. Sembra che il tempo non li abbia toccati e rimangono praticamente identici rispetto alle foto scattate nei mitici gotici anni ottanta. Solamente Peter Murphy ha una criniera un po’ meno folta, ma conserva immutato il suo carisma e quel tipico alone di mistero. “Burning from the inside” è il brano scelto per aprire il concerto: discreto, ma decisamente non travolgente. È, invece, con la seconda canzone proposta che il gruppo entra nel vivo dello show. “In the flat field”, tratta dal primo album in studio della band, è carica d’energia e sporca al punto giusto per fare scatenare i ragazzi sotto il palco. Da sempre i Bauhaus hanno legato le loro incontestate qualità musicali ad altrettanto indiscusse doti recitative, qualità usate dai quattro per meglio rappresentare i brani rappresentati. Peter Murphy ha, inoltre, saputo nel tempo estendere tale aspetto del suo personale show. E’, ormai, un provato attore che non lascia nulla al caso in ogni momento delle canzoni proposte: passeggia per il palco, guarda nel vuoto, sembra interagire più direttamente con quello o quell’altro spettatore e ci fa intendere ora un po’ di dolore, ora un po’ di mistero. Man mano che il concerto prosegue, si susseguono i classici del gruppo tra cui risultano ottime le versioni di “Terror couple kill colonel” (da “In the flat field” 1980), “She’s in parties” (da “Burning from the inside” 1983) e “Silent Hedges” (da “The sky’s gone out” 1982). Con “The passion of lovers” il pubblico grida all’unisono durante il ritornello e con “Kick in the eye” il frontman gigioneggia ancor più del solito. Intanto Peter Murphy utilizza un fune posta lateralmente alla batteria per amplificare la sua performance recitativa; vi si aggrappa, finge di strozzarsi, ci parla come se fosse la sua fedele compagna di vita e si dimena a ritmo di musica. Il momento migliore dello show arriva con “Hollow hills” (da “Mask”, 1981) in cui i musicisti sono abili a fare entrare il pubblico in trance in un brano lento ed accattivante, mentre Peter Murphy con una scenografia scarna, composta da un’unica classica lampadina ad incandescenza, raggiunge il top espressivo. Una nota a parte merita la chitarra di Daniel Ash che non perde mai di incisività; è tagliente e onnipresente e rappresenta la vera sorpresa strumentale della serata, come ci fa notare in “Dark Entries” con la quale si chiude la prima parte dello show. I bis sono quasi esclusivamente dedicati alle cover che i Bauhaus hanno dimostrato negli anni di interpretare al meglio. Una deliziosa “Severance” dei Dead Can Dance è una vera sorpresa, “Transmission” dei Joy Division è una perla (Peter Murphy mima anche il ballo sincopato di Ian Curtis), “Telegram Sam” è uno dei vertici assoluti della serata. Ma manca ancora il “cavallo di battaglia” del gruppo. quella “Bela lugosi’s dead” che i quattro Bauhaus realizzano al secondo rientro e che vede un Peter Murphy trasformarsi in vampiro, con tanto di mantello nero. È questo il momento che tutti aspettavano e, quando puntuale arriva, il pubblico risponde con un grande boato e con partecipazione generale, nonostante sia la fase dello show più manieristica e fasulla. L’ultimo rientro e l’ultima cover è per “Ziggy Stardust” di David Bowie eseguita in maniera pressoché speculare rispetto alla versione del duca bianco. I quattro abbandonano il palco troncando la canzone all’ultima strofa, salvo ritornare per eseguire non più un altro brano, ma proprio quell’ultima strofa mancante. E quindi, con quel “Ziggy plays guitar” si chiude lo spettacolo, si riaccendono le luci e i Bauhaus salutano il pubblico milanese che gli tributa un’ovazione globale. Tutti soddisfatti, insomma; il pubblico (e tra loro anche chi ha raccolto le bacchette lanciate da Kevin Haskins e che, sicuramente, conserverà come souvenir), gli organizzatori che hanno portato uno show di grande successo e, probabilmente, i Bauhaus stessi che hanno dimostrato di essere ancora la storica dark band che tutti conoscevano, nonostante il (lento) trascorrere del tempo. (Gianmario Mattacheo)