CLAUDIO BAGLIONI  "Strada facendo"
   (1981 )

Poco importa che tu ascolti Iron Maiden o Chopin, Metallica o Diamanda Galas, Kraftwerk o John Zorn: certi dischi resistono al tempo ed oltrepassano i gusti e le mode, sono come una calda coperta di Linus che non ti tradisce mai. I grandi cantautori sono confortanti, ti offrono sempre e comunque un riparo, sono lì a ricordarti che si possono esprimere emozioni anche in modo lineare, pulito e – soprattutto – sentimentale, nell’accezione migliore del termine. Claudio Baglioni fa parte della cultura musicale popolare italiana al pari di pochi altri grandi nomi, ciascuno dei quali ha costruito a suo modo un pezzo di storia della canzone del nostro paese nell’ultimo mezzo secolo. Claudio Baglioni ha sempre scelto la strada del sentimentalismo più trasparente, coniugando canzone d’amore e canzone d’autore grazie soprattutto ad una non comune vena poetica. Nell’ambito cantautoriale, “Strada facendo” è una sorta di Bibbia, un album che andrebbe studiato a scuola, compendio luminoso ed irripetibile dell’arte ricca ma semplice di questo straordinario autore romano dal cuore gonfio e dall’ugola stentorea. Otto canzoni – come si usava trent’anni fa – e neanche una nota buttata via; otto canzoni che abbiamo tutti ascoltato fino a possederle, volenti o nolenti; otto canzoni che dispensano fiumi di parole cesellate con sapiente maestria a produrre un effetto quasi straniante, ipnotico. E’ il caso dell’arcinota title-track, o de “I vecchi”, poesia musicata verbosa – è vero - e toccante, una cascata di brividi che fluiscono lungo cinque minuti di una malinconia infinita, addirittura eccessiva nella forza delle immagini vivide e palpitanti che pare di osservare nel loro insistito iperrealismo; ed è il medesimo effetto quello dal quale si viene volentieri travolti nella cavalcata a rotta di collo di “Via”, un diluvio di parole talmente serrate tra loro da raggiungere la completa saturazione, senza tuttavia perdere di vista il lato musicale (il brano è veloce e godibilissimo, con un piano che ricorda Elton John). Gli arrangiamenti – che furono affidati a Geoff Westley – virano su atmosfere soffuse spesso pilotate da un basso vagamente jazzy, che rende adorabile la ballata mid-tempo di “Notti” grazie ad una parte sufficiente a disegnare e reggere da sola tutta l’armonia del brano, come accade anche in “Ragazze dell’est”, altrettanto sovraccarica di immagini, col basso pulsante a dettare l’intera melodia insieme a tastiere delicate ed un pianoforte anni settanta, e nell’irresistibile intreccio di “Fotografie” chiusa addirittura da una reprise strumentale per orchestra. Unico neo, il disco si chiude in calando, coi due brani forse più deboli: “Ora che ho te” è una lovesong semplice, quasi uno stornello sempre guidato dal basso, e “Buona fortuna”, una ballata pianistica intima e confidenziale, non indispensabile nell’economia di un lavoro che potrebbe tranquillamente farne a meno senza perdere nemmeno un’oncia della sua perfezione stilistica e del suo ineguagliabile trasporto emotivo. (Manuel Maverna)