VITO RANUCCI  "Killing the classics"
   (2014 )

La prima parola che viene in mente ascoltando ''Killing the classics'' di Vito Ranucci è ‘trasfigurazione’. Non si tratta di rivisitazione, trascrizione, commemorazione, allitterazione... Ranucci parte dai classici (Bach, Mozart, Chopin, Ravel...) e, a conti fatti, non li uccide affatto, anzi! Il titolo del disco, provocatorio e stimolante, viaggia a braccetto con quello straordinario statement di Giuseppe Chiari, nato in piena era Fluxus: “Quit classic music”, nella consapevolezza che la musica classica è memoria, arricchimento, purché non diventi repertorio e, subito dopo, gabbia soffocante o cassetto polveroso. Se l’ottica è quella del ‘flusso’, la sorpresa di ''Killing the classics'' è sicuramente border/no/border: qui non si tratta di fornire una nuova versione/esecuzione, o ritentare il giochino di W.W. Carlos, di tutto un filone che ha inteso variare e contaminare introducendo un solo elemento di novità, fosse pure l’ultimo sintetizzatore di grido, oppure accostamenti etno, world, jazz, rozzamente tagliati e ricuciti (cut & copy) con temi (già) noti. L’intervento di Vito Ranucci trae la sua forza nella logica musicale delle architetture, che si confrontano con le testure originali riuscendo a farle proprie, e a permutarle in una pluralità di parametri. La texture è la trama, l’organza, il cuore di una composizione. È ciò che ne determina la densità. Ranucci, a differenza di altri (penso a Timet/Mariposa), salvaguarda la riconoscibilità della fonte primaria, ma genera qualcosa di nuovo, destinato a un pubblico più vasto di quello che abitualmente fruisce dei classici. L’ottica non è solo pop, ma propriamente popular. Ogni brano accosta il nuovo titolo alla sua provenienza, ad esempio la prima Gnossienne di Erik Satie diventa “La Danse”, un Concerto di Vivaldi si trasforma in “Night to love”, e così via. Si ha la netta percezione della consapevolezza autorale, che poggia sul vero senso (= direzione) della traditio, ovvero consegnare qualcosa, per farne altro. Torna, allora, la trasfigurazione (transfiguratio), che è intreccio profondo tra quello che era e ciò che sarà, permutazione della fisionomia del reale, accesso ad altro attraverso il ponte della prospettiva. Qualcosa che ha a che fare con quella luce immaginativo/creativa che nel panorama musicale contemporaneo è privilegio di pochissimi musicisti. (Girolamo De Simone)