REINIER VAN HOUDT  "Igitur carbon copies"
   (2018 )

Il fascino delle opere incompiute, è quello della loro non esistenza. L’attrazione è data da quello che non hanno, dal vuoto, ciò che manca: come sarebbe potuta terminare? Il lavoro non finito contiene in sé l’impulso irresistibile a chiudere i vuoti, la spinta a colmare l’inespresso. Per affrontare questo disco di Reinier Van Houdt, bisogna tener conto di tale concetto. Egli si è ispirato a un racconto poetico e filosofico incompleto di Stéphane Mallarmé, “Igitur”, del 1869. Anticipatore delle istanze delle avanguardie del primo Novecento, Mallarmé affrontò le tensioni derivanti dalle parole stesse, creando una cifra stilistica proto-surrealista. E Van Houdt prende spunto, per realizzare “Igitur Carbon Copies” (appena uscito per Hallow Ground Records), che è essenzialmente un flusso di ambientazioni sonore allucinanti, che circondano la voce narrante di David Tibet. La paura, mista a una fascinazione del brivido, è l’ingrediente principale di questo LP. In “Annunciation”, un timer fa partire suoni di piano elettrico e venti minacciosi. Il primo spavento è tra prima e seconda traccia, collegate da un furfante disturbo radio. La voce fa capolino in “An empty set”, mesta e solenne, poi ci sono suoni riprodotti volutamente a bassa fedeltà, come elementi narrativi, interni allo spazio ad alta fedeltà, che fa da sfondo inquieto. Ad esempio, suoni lontani di carillon, sommersi poi da voci femminili sovrapposte che pronunciano frasi diverse, sottovoce. I disturbi radio portano a cambi repentini di ambiente sonoro. Una vibrazione bassissima, sparata nelle orecchie, si alterna al famigerato “rumore rosa”, quello della tv in assenza di segnale. E siamo catapultati in mezzo ad una folla chiacchierante. Tutti gli elementi sono inanellati senza soluzione di continuità, con la stessa consistenza di un incubo. Tutte le materie che possono suggestionarti sono presenti: con “Midnight Rorschach” ad esempio, si fa riferimento alla psicologia. Rorschach è quello del test delle macchie nere (“Cosa vedi qui?”). Dunque, cosa sentiamo qui? L’interpretazione è personale, come per le macchie. Io sento cicale modificate, affiancate a segnali in codice morse impazziti. Tibet torna a parlarci nel capitolo successivo, “Leaving the room”, assieme ad un battito di cuore affaticato: non fa tu-tum, ma solo tum! Episodio centrale è la vertigine totale di “Descent”, dove perdiamo i riferimenti spaziali. Disturbi elettronici costanti a basso volume, una texture grigia e costante, come pioggia in 8 bit. Pioggia digitale, che da questo momento in poi sarà onnipresente. Dopo la psicologia, è il momento ora di un altro incubo, più cerebrale che onirico: la matematica! “Riemann angels”, citando il matematico Riemann ed il suo enigma rimasto irrisolto per secoli, fa tornare il narratore, che dice d’essersi perso. Noi lo eravamo già da un po’! Mentre tutto ciò che abbiamo udito finora, si accumula a ciò che ascoltiamo proseguendo il viaggio. Qui incontriamo una ritmica lenta, che trascina lamenti d’archi ed impulsi sintetici. La pioggia sintetica diventa esplicita e sfacciata nel prossimo titolo: “Murmurations” (brusii). L’ambiente è tridimensionale e dilatato. Sparabolle lanciano vapore in lunghi corridoi, mentre segnali distorti e cristallini rimbalzano alle pareti laterali, fatte di specchi deformanti. Ma non abbiamo ancora finito con la matematica. Arriva “The numbers”, dove, contando i passi, il narratore racconta di una costellazione di numeri nuovi, generati dall’orrore della situazione. Fa PAURA: diverse voci pronunciano numeri in lingue diverse, in toni diversi e a velocità diverse. E la paura diventa bad trip in “Tomb ectoplasm”, dove fluttuiamo fra le cifre, vaganti con noi, in uno spazio monodimensionale, raggiunti poi da lamenti terrorizzati e rimbombi psichedelici, nipoti questi ultimi di “Echoes” dei Pink Floyd. Infine in “Spiral” ritorna il piano elettrico delle prime tracce, e il timer che spegne l’incubo. Un incubo da rivivere più volte, un’esperienza onirica ad occhi aperti e orecchie attente. (Gilberto Ongaro)