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08/05/2020   BOB DYLAN
  Un nuovo inedito: ''False Prophet'' – L'Approfondimento di Samuele Conficoni

L’ha fatto di nuovo. Per la terza volta. A metà aprile, a distanza di tre settimane dall’epica e oscura “Murder Most Foul”, diciassette minuti di qualità e densità straordinarie, sempre a mezzanotte (la mezzanotte newyorchese), Bob Dylan aveva diffuso sul web la più concisa ma altrettanto complessa “I Contain Multitudes”. Stanotte, a tre settimane di distanza, Dylan ha deciso non solo di pubblicare un terzo brano inedito, il polveroso e aggressivo blues “False Prophet”, sei minuti scoppiettanti e ispirati, ma anche di annunciare che il suo nuovo album, Rough and Rowdy Ways, il primo con inediti dai tempi di Tempest (2012), uscirà il 19/06 e conterrà dieci brani distribuiti in due dischi, con “Murder Most Foul”, isolata, unica traccia del secondo. È una notizia sconvolgente ma per certi versi prevedibile. Il sottoscritto – lo provano diverse chat scambiate con amici negli ultimi giorni – sosteneva da tempo che qualcosa stesse bollendo nella “Bob Dylan pentola”. Il Nostro, dicevo, non ama pubblicare one-offs senza che ci sia sotto qualche finalità. Io avevo individuato proprio in quella di oggi (a tre settimane di distanza dall’ultimo annuncio, un’iterazione ben chiara) la giornata che ci avrebbe offerto risposte. Così è stato.

Ripartiamo da capo. Ieri i canali social di Bob Dylan pubblicano una misteriosa immagine con la scritta “False Prophet”. Nuovo album? Nuovo singolo? L’immagine, in primis. Siamo di fronte alla rivisitazione della copertina di un magazine pulp fiction, The Shadow, per la precisione un’uscita del luglio ‘42 che contiene il racconto Death About Town. Le principali modifiche sono due: lo scheletro ha in mano una siringa e, sullo sfondo, compare la silhouette di un signore impiccato (ha il ciuffo di Trump e secondo molti si tratta proprio di lui). Chi è, dunque, il falso profeta? Il politico infame, senza dubbio, ma forse anche chi lo avversa e incarna una opposizione fasulla, di facciata? Sono alcune delle tante teorie che circolano nelle community dylaniane (di cui faccio parte). Non lo sapremo mai. Il testo non dà risposte. Di certo, ci assicura Dylan nel brano, lui non è un falso profeta. Per uno che ha sempre dichiarato di non sentirsi un profeta, di non essere la voce di niente e nessuno, la notizia sorprende. Tuttavia, come in tutte le migliori opere di Bob, non ci sono certezze ma solo domande. Perciò in “I and I”, su Infidels, 1983, Dylan cantava: Ho costruito scarpe per tutti, mentre io vado ancora scalzo. Le (poche) cose che sappiamo sono che questo nuovo brano, “Murder” e “Multitudes” saranno contenuti nel nuovo album. Che questo nuovo album ha un titolo preso in prestito dal grande cantante country Jimmie Rodgers, morto nel 1933. Nel 1929 Rodgers registrava “My Rough and Rowdy Ways” e di Rodgers, nel 1960, usciva una raccolta con lo stesso titolo. La copertina del disco è una foto scattata in un club di East London da Ian Berry nel 1964, già utilizzata per una ristampa del romanzo Room at the Top di John Braine. All’interno del vinile compare una foto di Rodgers accanto alla Carter Family. A un loro pezzo Dylan si era in parte ispirato per il brano “Tempest”.

Ma veniamo alla canzone. Un altro giorno che non finisce, inizia Dylan, un’altra nave pronta a salpare, un altro giorno di rabbia, amarezza e dubbio. Canta con tono spavaldo. La musica disegna un blues polveroso che si apre a una melodia carezzevole nei primi versi di ogni strofa e sfocia, negli ultimi, in una chiusa sinistra e diabolica. Siamo piuttosto distanti dalle atmosfere soffuse, da camera, a tratti cupe e a tratti più chiare, di “Murder” e “Multitudes”. Siamo tornati nelle zone di “Narrow Way” e di “Early Roman Kings” di Tempest. Ci sono vicinanze a temi affrontati in “Pay in Blood”, racchiusa nel medesimo album, e un’atmosfera da fine dei tempi presente in molti momenti di Time Out of Mind. La melodia è avvicinabile in parte a quella di “My Wife’s Hometown” in Together Through Life. D’un tratto siamo precipitati all’interno della fitta e complessa enciclopedia dylaniana, un insieme di citazioni, rimandi e allusioni che solo un genio come lui è in grado di creare.

Non sono un falso profeta, ho solo detto quello che ho detto, canta Dylan nella settima strofa, con una freddezza e un cinismo inquietanti. Sono qui per portare vendetta sulla testa di qualcuno, incalza. Sembra che presto scorrerà del sangue. Ma chi è il narratore? Un protettore, come pare indicare la seconda strofa? Cosa sono quelle navi che salpano, e chi o cosa vanno a prendere? Tratta degli schiavi, forse, ma chi parla è un mercante o uno schiavo fuggito pronto a dare battaglia? Dylan si cala nella parte, qualunque essa sia, senza darci altri indizi. Sono il primo tra i pari (sembra esserci, qui, un richiamo al primus inter pares omerico, e la cosa non ci sorprende considerando le tante citazioni omeriche del Dylan di Tempest), secondo a nessuno, l'ultimo dei migliori, il resto puoi seppellirlo. Canto canzoni d'amore, canzoni di vendetta, non t’importare di quello che bevo, di quello che mangio, ho scalato scalzo montagne di spade. Non è ben chiaro se stiamo entrando nei territori violenti di certi passi di Tempest, se Dylan stia interpretando un indemoniato (e agguerrito) bluesman, se Mary Lou e Miss Pearl siano due prostitute.

È il narratore, infatti, più che la storia, a essere il mistero più affascinante del brano. È un narratore non troppo affidabile, vuoi perché ama fare ironia, vuoi perché non ha interesse a dirci la verità, a informarci sui fatti. Non riesco a ricordare quando sono nato, conclude spietato, e ho dimenticato quando sono morto. Poco prima ci aveva ricordato di essere un nemico del tradimento, del conflitto, della vita non vissuta, senza senso, ci aveva detto di seppellire i nemici nudi con il loro oro e argento, di buttarli tre metri sotto terra, di pregare per le loro anime. Ci dice di stare cercando il Sacro Graal! Stiamo combattendo al fianco del narratore per la giusta causa o per quella sbagliata? Siamo nordisti o sudisti? O siamo nel mezzo di una faida privata, un regolamento dei conti che esula da qualsiasi guerra? Poco importa, oramai, perché ci siamo dentro. La versificazione di Dylan è, come al solito, fresca. Il Nostro continua a illuminarci col suo enorme talento. Gli otto anni senza nuove composizioni proprie non ne hanno scalfito la brillante maestria. Quello che ascolteremo a giugno sarà il suo primo disco di inediti a uscire dopo il Premio Nobel del 2016. È (lo scrivo mandando a Bob un virtuale occhiolino) una bella responsabilità. I tre nuovi brani ribadiscono al mondo – ma non ce n’era bisogno – che quel premio Dylan lo ha meritato eccome. (Samuele Conficoni)